un sapore di ruggine e ossa, di jacques audiard, con marion cotillard, matthias schoenaerts, armand verdure (fra, bel/120'/2012)
vetrinometro: sette vetrine (in realtà, due, perché richiede un po' di silenzio dentro, prima di parlarne. ed è un complimento)
ci sono due telefonate che sorreggono questo film come se fosse un ponte. due telefonate tra i protagonisti: alì, ragazzo padre, irruente e naif, giovane pugile da strada, ex buttafuori che affronta la vita a cazzotti e colpi di lombi, e stephanie, ex animatrice di uno spettacolo di orche inchiodata a una sedia a rotelle. in fondo, due marginali che si occupano del divertimento altrui. incredibilmente attuale. nella prima telefonata, è lei, chiusa in un bozzolo nero dopo aver perso le gambe, a chiamare lui, l'ultimo uomo che abbia prestato un po' di attenzione nei suoi riguardi. pur dandole della puttana. nella seconda, è ancora lei a prendere l'iniziativa ma è lui a mostrarsi indifeso, perché sam, il figlio, è in ospedale e ha rischiato di morire e in quei momenti dio sa quanto c'è bisogno di una donna. anche se stephanie non vuole più uno stallone e nemmeno un atleta cui fare il manager. anche se stephanie è una ragazza con le gambe meccaniche: molto più complicato di una che incontri in palestra e ti scopi telefonando.
nelle due telefonate c'è una richiesta di aiuto, prima di lei, poi di lui. e una richiesta di aiuto è qualcosa di molto più basilare di un sentimento. la prima chiamata avvia la relazione, la seconda la riapre. un sapore di ruggine e ossa è qualcosa di più autentico di un "film d'amore", forse è un film d'amore all'osso: è la storia di due persone che cercano di (soprav)vivere e si incontrano per i giochi del destino, finendo per aggrapparsi l'un l'altro come naufraghi. ben sapendo che la vita è un accumularsi di ferite che, come le fratture alle mani - come le amputazioni - non si saldano mai davvero. e quindi, oltre la porta d'albergo su cui bussano i titoli di coda, ogni frivola speranza è schiacciata dalla consapevolezza che si procede accanto finché si può. per sempre? che senso ha dopo un ritratto così precario dello stare al mondo?
il film srotola una coperta scura sugli spettatori eppure non pecca mai di eccesso perché gioca tutto su un insaziabile bisogno di vita, cioè ciò che spinge avanti uomini e donne, facendoli incontrare, separare, incontrare di nuovo (dividere una vita, si vedrà. alla peggio, opé). e quell'urgenza di vita è resa dalla fortissima fisicità del film stesso: alì non si contiene, da nessun punto di vista, nemmeno se ha il figlio tra le mani; lei trova in lui nuove gambe, nuovo sesso, nuovi stimoli; lo spettatore è costretto a trattenere il respiro - letteralmente - fino all'ultimo.
e poi, che bel modo di fare cinema. quando alì scippa un cliente in un negozio, non assistiamo alla sua fuga, ma all'attesa del piccolo sam, perso per strada come un eroe dei dardenne. del resto, il furto sfamerà anche lui. e quando alì fugge al nord per boxare, la lunga strada percorsa è raccontata dal camion che attraversa la francia sotto ogni meteo. con un senso di incertezza e sospensione, da romanzo d'altri tempi, che conquista lo spettatore, ancora invogliato a credere a un bel camino acceso in fondo al film. solo che la vita è più complessa del cinema. e dei romanzi d'altri tempi. e audiard non vuole mentirci.
treninellanotte@gmail.com
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