take shelter, di jeff nichols, con michael shannon, jessica chastain, shea wingham (usa, 2011, 116') - al cinema apollo
povertà. sfratti. disoccupazione. la crisi e lo scoppio della bolla immobiliare hanno travolto il paese. e hanno messo sul lastrico milioni di persone. è lo strillo di copertina dell'ultimo numero di internazionale. si riferisce a un'inchiesta (sorprendente) sulla spagna, e mi è finito sotto gli occhi questa mattina: sembra parlare proprio di take shelter. che non è un film spagnolo: ci porta, anzi, nell'america profonda, nell'ohio agricolo, operaio, devoto e sessualmente represso, lo stesso stato da cui arriva jack lemmon nell'indimenticabile un provinciale a new york. ma il senso è lo stesso: è tempo di avere paura, le sicurezze sono finite. è arrivata la bufera.
take shelter ("trova rifugio") è la storia di curtis, operaio specializzato nel carotaggio del terreno, un uomo abituato a guardare sotto i propri piedi che si sente improvvisamente minacciato dalla natura sopra la sua testa. lo divorano incubi colmi di temporali, pioggia densa come olio, cani che spezzano la catena e lo aggrediscono. lasciando ferite che bruciano anche al risveglio. poi, gli incubi incominciano a invadere la realtà e a condizionare la sua vita e quella della sua famiglia, moglie e figlia non udente. curtis decide quindi di costruire un rifugio sotterraneo per mettere in salvo i suoi. e sarà l'inizio della fine.
premiato a cannes e non solo, tessuto intorno all'espressione ottusa di michael shannon (una maschera che nasconde la tempesta interiore), take shelter è un film sui fantasmi della mente, eredità di famiglia che la moglie del protagonista cercherà di combattere con una coraggiosa terapia a base di realtà. ed è un film che getta noi spettatori nella condizione di sentirci costantemente minacciati. prima perché ci rende incapaci di distinguere cosa curtis stia sognando e che cosa stia realmente vivendo (dunque chiudendoci dentro la sua mente), poi perché quelle minacce possono esplodere in qualunque momento. persino il lento carrello dentro una biblioteca diventa il sospetto di un pericolo imminente.
ma la sceneggiatura è chiaramente intessuta di riferimenti alla vita comune di un americano medio, che può curare una figlia sorda solo perché ha la fortuna di avere un lavoro con l'assicurazione giusta, che possiede una casa e due vetture perché una banca le ha finanziate (ma il prestito per il rifugio, in filiale, non piace), che scopre di non poter contare su un'assistenza psicologica pubblica che non sia un distratto ricambio di volti dietro una scrivania.
"arriverà una tempesta come nemmeno vi immaginate", grida il protagonista nel sottofinale, durante una festa fra colleghi che sembra sancirne il ruolo di scemo del villaggio. nel 2010, anno in cui è ambientato il film, il pil americano ha conosciuto una prima ripresa ma take shelter non è una lezione di finanza: è una metafora della fragilità delle nostre sicurezze materiali, del nostro presunto benessere, dei nostri progetti da laboriose formiche in una natura - potente, misteriosa e magnifica - che può schiacciarci come un crollo dei mutui subprime. è un manifesto di un'america sempre più fragile e di un mondo "civilizzato" che ha sempre più paura. senza sapere esattamente di che cosa.
take shelter finisce negandoci l'illusione di una facile guarigione, forse mostrando l'impotenza dell'amore che tiene unita una famiglia davanti agli sconvolgimenti della psiche. ma c'è di più: mette in dubbio fino in fondo l'ottimismo della ragione, la certezza che la barca libera e liberista verrà riportata a galla dal miglior sistema possibile, sottolineando come il terrore di una tempesta che nessuno udiva rombare rischi di essere saggia preveggenza.
peccato solo per il doppiaggio, che crea una distanza avvilente fra spettatore e film: il suono pare arrivare attutito da un bicchiere. ma, del resto, all'ultima proiezione di ieri eravamo in quattro. con la lingua originale e i sottotitoli, se ne sarebbe andato pure il proiezionista.
treninellanotte@gmail.com
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