amour, di michael haneke, con jean-loius trintignant, emmanuelle riva, isabelle huppert (fra, aut, ger/125'/2012)
vetrinometro: nove vetrine
la rassegnata pazienza di un uomo anziano che si prende cura della compagna di vita malata. ma anche la rabbia verso la malattia e verso la volontà della donna di non combattere più. lo sforzo di costruire una quotidianità affettuosa. ma anche la distanza con una figlia adulta, che si comporta ancora come una bambina, più preoccupata di se stessa, della sua impotenza, forse dei suoi sensi di colpa, scaricati magari contro il padre a colpi di trilli di cellulare. la cortese teatralità di chi entra in casa per aiutare. ma anche l'incapacità di tradurre in parole comprensibili agli altri questa esperienza. che infatti si insinua nella notte e diventa incubo.
haneke mette in scena la fine di una vita a due - anne, insegnante di piano, che progressivamente cede al male malgrado le cure di georges - e lo fa senza arretrare mai davanti alle sofferenze sempre più acute, ma non certo per pornografia del dolore. qui si racconta come può terminare una storia d'amore, come fosse un capitolo non ancora sfogliato di bella addormentata, privato e raffinatissimo nel descrivere personaggi, psicologie, reazioni, cambiamenti. insomma, l'epilogo di una vita insieme: e una vita insieme che cosa si porta? ricordi. e haneke è così bravo che tutti quei ricordi li condensa in un appartamento parigino, fuori moda come i due inquilini, vivo sullo schermo al punto che si avverte l'odore di certe case che hanno assorbito anni di odori, suoni, foto, suppellettili, segreti, cibi, sesso, ospiti, vite, morti. se non bastassero quelle lunghe inquadrature fisse che invitano lo spettatore ad "abitare" in casa con anne e georges, a guardarsi intorno come faremmo seduti nel salotto di altri, c'è l'idea di filmare, d'improvviso, i dipinti appesi in casa, muti testimoni, come noi, di quanto accade. ma anche oggetti che hanno memoria e che sono memoria, come tutto quello che ci circonda in un'abitazione.
la memoria è del resto un nodo centrale del film, affidato in gran misura alla musica. che anne, a un certo punto, non vuole più ascoltare, perché porta con sé souvenir insopportabili di una vita che sta finendo. la musica che il film in più di un caso interrompe, magari con un rumore sgradevole (un aspirapolvere, per esempio), ricordandoci che la realtà, la malattia, stanno spezzando quell'epoca. e sarà dopo essersi abbandonato a un ricordo che georges porrà fine a ogni sofferenza. estremo atto d'amour?
ma, improvvisamente solo, al punto di catturare un piccione entrato in casa per avere tra le braccia qualcosa che dipenda ancora dalle sue cure, l'uomo sigilla la camera da letto in cui giace anne, la seppellisce tra i loro ricordi, appunto, e scompare dietro a un fantasma della memoria. e il film si chiude sulla figlia che, tornata a casa tempo dopo, non trova più nessuno. non ascolterà più i genitori fare l'amore, quel suono che la rassicurava perché le provava che si amavano ancora. c'è solo silenzio. forse c'è una nuova casa per lei. da colmare dei suoi ricordi e dei suoi dolorosi compromessi di coppia (ne avevano anche mamma e papà). le case, si diceva, sono somme di ricordi. come i matrimoni.
in un'epoca in cui la bellezza è un dovere, il disimpegno un mantra, il cinema d'autore (?) roba per snob arroganti che non hanno capito niente, la vecchiaia un tempo da teleedulcorare e la gente, ci dicono gli esperti, non va al cinema perché ha bisogno di ottimismo, haneke gioca un'altra partita. con infinita sensibilità e attori superbi. per me la gioia di vivere nasce da un bel film. se volete essere felici, piangete con haneke.
da consumarsi preferibilmente con: alla fine ho deciso di vivere, biografia di jean-louis trintignant, mondadori
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